AVERE UN FIGLIO SPECIALE.

Negli ultimi giorni si è parlato molto sui giornali di un ragazzo autistico che è riuscito  a laurearsi, notizia che ha scatenato anche alcune polemiche sulla veridicità della patologia, perciò vorrei fare chiarezza per coloro che non hanno dimestichezza con questo quadro diagnostico.
La nascita di un bambino è sempre un evento felice, ma in ogni caso destabilizzante per una coppia, che all’improvviso si ritrova a dover condividere i propri spazi  e tempi con un nuovo individuo. I primi tempi sono complicati perché il neonato assorbe la quasi totalità del tempo, manifesta i propri bisogni e necessita di continuo accadimento. Le esigenze della diade coniugale devono convivere con le esigenze della triade genitori-figlio.
E’ un periodo in cui il sistema famiglia va ristrutturato per accogliere e  soddisfare le esigenze del nuovo membro.
Quando però il bambino che arriva è speciale, le cose si complicano ulteriormente perché bisogna fare i conti con esigenze anch’esse speciali. Ed i genitori devono anche fare i conti con il bambino ideale, quello che per nove mesi avevano immaginato bello e perfettamente sano, e la cui immagine va ristrutturata tenendo conto del bambino reale che è arrivato.
Questo è un discorso che vale in generale, ma nello specifico intendo trattare adesso la patologia dell’autismo: fa parte della categoria dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo ( PDD ) del DSM-IV, insieme alla Sindrome di Asperger, Sindrome di Rett e Disturbo Disintegrativo dell’Infanzia, ed è un disturbo che riguarda la relazione e la comunicazione.
La caratteristica tipica di questo disturbo è la marcata diminuzione dell’integrazione socio-relazionale, e della comunicazione con gli altri, ed un conseguente ritiro interiore. Tuttavia, data la diversità di manifestazioni cliniche sintomatologiche e la complessità nel dover fornire una classificazione unitaria dei sintomi, si preferisce  parlare di Disturbi dello Spettro Autistico.
Per spiegare in maniera più semplice ciò di cui stiamo parlando possiamo dire che, normalmente i neonati stabiliscono delle connessioni tra i sensi, la motricità e l’affettività fin da subito. Ad esempio quando devono rivolgersi verso la voce della mamma devono fare una connessione fra il suono udito, il movimento di rotazione del capo e la piacevolezza “dell’incontro” con la fonte originaria del suono, la mamma. E questa connessione è attiva già dai primi giorni dalla nascita. Diventa più importante dopo i 6 mesi quando il bambino si impegna sempre di più in comunicazioni sociali ed emotive reciproche: lo scambio di vocalizzi e sorrisi, il raggiungere un oggetto che la mamma porge, impegna il bambino in azioni motorie dotate ci uno scopo e guidate dagli affetti. Man mano che cresce gli scambi con il mondo esterno aumentano, ed i comportamenti diventano sempre più finalizzati ad uno scambio anche affettivo, come il protendere le braccia per essere preso in braccio o poter raggiungere il giocattolo desiderato.
La maggior parte dei bambini con un disturbo dello spettro autistico hanno difficoltà nel padroneggiare questa capacità di base, cioè uno scambio bidirezionale di segnali affettivi. Per questo si è ipotizzato che in questi disturbi ci sia una difficoltà su base biologica nel formare connessioni fra sensorialità, affettività e motricità che predisponga alle difficoltà successive nel mettere in relazione gli affetti con azioni complesse e attività condivise. Con la comparsa del linguaggio e l’emergere della capacità di ripetere i suoni percepiti, questa stessa difficoltà compromette le capacità del bambino di connettere gli affetti a parole dotate di senso ( ad esempio il bambino ripete le parole senza un chiaro intento affettivo ).
I bambini con queste debolezze nelle capacità evolutive possono evidenziare una scarsa o assente comunicazione verbale e comportamenti motori ripetitivi e a finalistici.
La gravità di queste compromissioni varia in ogni bambino e questo origina una pluralità di manifestazioni sintomatologiche che non ci permettono di inquadrare la patologia in criteri diagnostici rigidi.
Alcuni bambini traggono giovamento dall’essere inseriti in programmi di intervento integrati, indirizzati alle loro difficoltà di base e che mettono in relazione gli affetti, le sensazioni e i movimenti.
Ciò che di questa patologia più spaventa i genitori è proprio questa mancanza di scambio con il bambino, egli è chiuso in un’impenetrabilità autosufficiente, in un mondo in cui le regole dell’ambiente esterno non valgono, in una dimensione soggettiva del corpo stesso.
Le prime reazioni dei genitori che si trovano davanti un figlio che si isola, ripete sempre gli stessi gesti, non comunica e non accetta il contatto fisico, sono smarrimento, paura, sconforto, svalutazione, frustrazione. Ci si sente spaventati da reazioni così tanto diverse da quelle dei bambini “normali”, ci si chiede “perché a mio figlio?” , “cosa ho sbagliato?”, “sarà colpa mia?”. In seguito la frustrazione del non riuscire  ad entrare in contatto con la propria creatura, non riuscire a trasmettergli l’amore dà origine ad un senso di svalutazione delle proprie capacità genitoriali.
Se ci si chiude in questo dolore e non si comunicano all’esterno le difficoltà personali  e del proprio bambino si rischia di subire la patologia, in un periodo storico in cui esistono metodi comportamentali che aiutano i genitori a relazionarsi con figli speciali, e i bambini a migliorare le loro capacità e acquisire comportamenti adeguati.
Il metodo ABA, Applied Behavioral Analysis, applica i principi e le tecniche del comportamentismo a questa patologia, ed utilizza il concetto di rinforzo per incrementare o ridurre determinati comportamenti, e sviluppare e consolidare nuovi apprendimenti.
Si parte con un’osservazione e categorizzazione del comportamento del singolo bambino da parte di uno psicologo comportamentista, il quale in seguito stila un progetto educativo per avviare interventi sia in ambito cognitivo che comportamentale.
Diverse ricerche certificano la validità di questo metodo, seppur tenendo conto di variabili che possono influenzare il grado di miglioramento: la precocità dell’intervento riabilitativo, le capacità cognitive e linguistiche di partenza del bambino, l’intensità dell’intervento, il coinvolgimento della famiglia nell’intervento.
I migliori risultati si hanno proprio quando gli interventi vengono applicati a casa e con il diretto coinvolgimento della famiglia intera. E’ importante che la famiglia sia pronta ad approntare una stanza dedicata all’apprendimento scolastico-educativo, e  a dare libero accesso agli educatori.
La stanza deve avere un tavolino e due sedie che permettano a terapista e bambino di essere alla stessa altezza, e deve essere libera da distrazioni, illuminata e attrezzata con il contenitore dei rinforzi. Bisogna scegliere gli oggetti che attirano l’interesse del bambino o le situazioni che lo gratificano, e usarli solo come risposta positiva al comando dato, solo in terapia. Se gli oggetti scelti perdono interesse vanno sostituiti. Questo aggiornamento va avanti finchè sarà sufficiente come rinforzo l’apprezzamento del terapista o del genitore (rinforzo sociale).
Il rinforzo rappresenta la motivazione con cui il bambino lavora, soprattutto all’inizio della terapia. Questo metodo rappresenta un grosso sollievo per i genitori, che vedono uscire il figlio dall’isolamento, dallo stress e dalla frustrazione a cui i gesti stereotipati costringono. E’ necessaria tanta pazienza soprattutto all’inizio per convincere il bambino a seguire i comandi; ogni seduta deve concludersi con un successo, ciò vuol dire che si esegue un comando alla volta e quando viene eseguito con successo la seduta termina. Si ripete il comando finchè non viene acquisito. Il meccanismo che il bambino deve apprendere è richiesta= risposta= conseguenza.
Il caso del ragazzo autistico di 33 anni che si è laureato in pedagogia con cui ho iniziato l’articolo, utilizza per esprimersi il metodo della scrittura facilitata,  una tecnica che gli consente di scrivere al computer grazie a uno stimolo esterno, un tocco al dorso da parte di un assistente alla comunicazione. Questo metodo parte dal presupposto che il disturbo comunicativo sia legato solo ad un deficit espressivo e non cognitivo, in realtà nell’autismo c’è un percentuale di deficit cognitivo, che sarebbe incompatibile con l’utilizzo di questo strumento.
Dalla pubblicazione di questa notizia si alternano opinioni sulla veridicità della diagnosi di autismo; a me non interessa questo aspetto, piuttosto far capire ai genitori che vivono nel buio della disperazione che esistono dei metodi per aiutare i propri figli speciali a condurre una vita il più possibile  “normale”. E se poi il vostro figlio speciale potrà addirittura arrivare alla laurea sarà solo motivo di gioia per lui  e per voi.