11/03/2014

DONNA ABORTISCE IN OSPEDALE SENZA ASSISTENZA MEDICA.

Il fatto è accaduto ad una ragazza romana di 28 anni, nell’ottobre 2010, e venuta agli onori della cronaca solo adesso.
Sembra che la donna fosse affetta da una malattia genetica rara e, secondo le sue dichiarazioni, terribile. Ma potendo lei concepire naturalmente non può accedere alla fecondazione assistita, per la quale è prevista la diagnosi pre-impianto, di conseguenza se vuole avere figli deve solo provare  a restare incinta e, qualora scoprisse la presenza della malattia nel feto, eventualmente decidere se abortire oppure no.
Purtroppo è accaduto proprio che al quinto mese di gestazione hanno scoperto la presenza della patologia e, non volendo condannare il proprio figlio alla sofferenza eterna, hanno deciso di procedere con l’aborto. L’ospedale a cui si recano però ha tutti medici obiettori di coscienza tranne uno, di conseguenza il non obiettore inizia la procedura, ma, poiché non è di rapido svolgimento, finisce il turno e la coppia resta in una struttura dove tutti sono obiettori. La coppia resta da sola in bagno a portare a termine la tragica procedura senza alcuna assistenza medica per 15 lunghissime ore.
Per chi non sapesse come si svolge l’aborto in una struttura dove i medici sono obiettori di coscienza, vi dico che non si pratica l’intervento di svuotamento dell’utero in anestesia, bensì si somministrano farmaci che inducono il travaglio e letteralmente si partorisce un feto, questo anche se il feto è morto naturalmente nel grembo materno.
Questa donna oltre allo strazio di dover scegliere per la non vita del figlio tanto desiderato, oltre ai dolori di un parto fantasma, oltre ad essere lasciata sola a sopportare tutto ciò, isolata in un bagno lontano dalla vista di medici giudicanti, attorniata dai pianti di neonati e mamme felici, doveva anche sopportare le sgradite visite di attivisti anti aborto che accusavano la coppia di commettere un crimine.
La cosa che mi sconcerta in questa storia è l’assenza di quel sentimento di pietà verso una donna che sta soffrendo non solo psicologicamente per la scelta fatta, ma anche fisicamente, di quei dolori che la natura permette alla donna di dimenticare quando abbraccia il suo piccolo, ma che questa donna non dimenticherà.
Veniva punita attraverso la sofferenza e l’isolamento per una scelta contraria al pensiero di alcuni. Sono momenti in cui si pensa più a fare i censori che allo stato psicologico della persona che si accinge a questo tipo di intervento.
Una donna che decide di abortire, qualsiasi sia la ragione che la spinge, non lo fa mai con leggerezza, sa che sta decidendo della vita di un altro individuo, sa anche il biasimo sociale a cui si sottopone, sa di dover elaborare un lutto, sa che il ricordo di quel gesto rimarrà dentro di lei. Una donna che abortisce non dimentica mai quel figlio mai nato, può anche andare incontro a depressione, come conseguenza di un gesto irreversibile. Non serve punire  e flagellare queste donne, perché si flagelleranno da sole per il resto della loro vita. Saranno tormentate dal dubbio che magari le motivazioni che le hanno spinte all’aborto potevano ottenere risposte diverse: “magari avrei potuto…”, questo è lo spettro che non le abbandonerà mai.
Ma se permettiamo alle donne di scegliere questa via, perché poi non le assistiamo, anche non condividendo, fino alla fine? Può un medico guardare in faccia la sofferenza e non curarsene solo perché non se ne condivide il gesto? Può un medico ovviare “all’obbligo” di assistenza insito nella sua professione?
Chiunque ha partorito sa quale tipo di dolore si patisce e per quante ore, che sembrano scorrere sempre più lentamente. L’unica forza per sopportare il dolore la dà l’aspettativa di abbracciare entro poco il proprio pargoletto. Ma se invece questo non accadrà? Come si sopporta il dolore?
Io ho potuto vedere i volti di donne che hanno perso per l’ennesima volta il loro bambino tanto desiderato e che, poiché sono ricoverate in un ente ecclesiastico, non possono usufruire di un metodo fisicamente meno doloroso, ma devono patire i dolori di travagli lunghissimi e vuoti. Io le ho viste soffrire piegate in due dal dolore sedute ai piedi del letto, le ho viste andare avanti e dietro dal bagno illudendosi che finalmente il piccolo feto morto sia uscito, e la sofferenza finita, e invece tornare ai piedi di quel letto ancora più sofferenti. Avrei tanto voluto avvicinarmi  e abbracciarle per far sentir loro il conforto umano di chi sa cosa stanno soffrendo, ma come avrei potuto se io stavo stringendo fra le mie braccia il mio bambino e loro invece vedranno solo un essere informe morto? E’ un’immagine che resterà per sempre legata al mio parto quella di quella ragazza che soffriva la notte piegata sul letto, nell’indifferenza del personale medico, nessuno è mai venuto a chiederle come si sentisse. Ma quale era la sua colpa se quel figlio non è riuscito a vivere dentro di lei? Non aveva deciso lei per la morte del figlio, perché dover subire questa pratica brutale?
Con quale stato d’animo quella donna riproverà ad avere un figlio, presa dal terrore che l’aborto spontaneo possa tornare a distruggere tutti i sogni, nel ricordo sempre vivo di quel parto fantasma già subito.
Ma l’assurdità maggiore è che quando il feto viene espulso naturalmente dopo ore di travaglio, venivano portate in sala operatoria per il raschiamento della sacca gestazionale. E allora perché tanto dolore fisico e psicologico solo per un principio?
Io ho visto la sofferenza nello sguardo di quelle donne quando il mio bimbo piangeva manifestando la sua esistenza, mentre il loro corpo spingeva per espellere un essere morto. E ci si sente in colpa, in colpa per l’immensa gioia che si sta provando quando intorno tutti soffrono. ( Nella mia camera d’ospedale c’erano 5 letti, l’unica che aveva partorito ero io, tutte le altre erano lì per un aborto spontaneo ). E mi vergogno, ma ho provato la paura di lasciare solo il mio piccolo anche solo per andare al bagno nel timore che la loro disperazione potesse portarle  a prendere il mio bambino.
Proviamo ad entrare nella psiche di chi attraversa questa esperienza tragica: c’è la delusione per un ulteriore fallimento, la delusione nel non capire perché la natura si diverta tanto a farle restare incinte e poi togliere loro il proprio figlio in maniera crudele e beffarda. La delusione per il non essere state capaci di custodire il proprio bambino, di proteggerlo, di difenderlo, e la sfiducia nelle proprie capacità tutelari che ne consegue. Si disintegra il proprio senso di autostima. E poi bisogna elaborare il lutto, “seppellire” nella mente il figlio già immaginato, già sognato, il futuro già prefigurato e fantasticato. E come se non bastasse dover fare i conti anche con l’orribile pensiero che un grembo che ha il potere di dare la vita, sia stato portatore di morte, l’antitesi della vita, che il PROPRIO ventre, diversamente dalle altre donne, ha portato morte, e domandarsi come sia stato possibile, quale responsabilità si ha, quale errore si è commesso.
Davvero credete che ci si possa liberare di tutto questo in maniera leggera? Davvero credete che si possa evitare questo inferno psicologico? Non giudichiamo le vite degli altri, è troppo facile. Piuttosto accostiamoci a loro e cerchiamo di confortarli nelle loro scelte, forse alleggeriremo un po’ la loro sofferenza.