COSA SI PROVA DA STALKIZZATI

La parola stalking è un termine con il quale quotidianamente veniamo in contatto, e del quale sommariamente conosciamo il significato un po’ tutti. Letteralmente deriva dal verbo inglese to stalk nel senso di colui che “cammina con circospezione e in modo furtivo”, quindi un insieme di comportamenti molesti e continui, fatti di pedinamenti, appostamenti, intrusioni nei contesti di vita privata, telefonate oscene o indesiderate.
Rimanda quindi a molestie continue, inseguimenti, agguati sotto casa, nei luoghi di lavoro o abitualmente frequentati, telefonate, sms ed e-mail ossessionanti, vissute come un’intrusione violenta. Tutte azioni messe in atto dallo stalker a fine di rivendicare un legame sentimentale vissuto o immaginato, desiderato.
È possibile essere stalkizzati non solo da ex fidanzati o ex compagni, ma anche da perfetti sconosciuti, che appunto ritengono di volere un legame sentimentale con una persona e per soddisfare questo bisogno diventano persecutori ossessivi, che braccano le donne come l’animale fa con la sua preda.
I sentimenti che si provano quando si è vittime di stalking sono sostanzialmente gli stessi sia che si conosca il proprio persecutore sia che non lo si conosca. Il primo sentimento  è di sorpresa e disorientamento iniziale, come quando si riceve un pugno inaspettato e ci si sente sbandati e increduli, allo stesso modo quando ci si scopre vittime di persecuzioni si prova un senso di incredulità, perché il pensiero è che queste cose succedono agli altri. Il primo istinto è di analizzare il proprio atteggiamento, per comprendere cosa si sia fatto di sbagliato per attirare l’attenzione e le reazioni dello stalker, soppesando ogni minimo gesto ed ogni più piccola parola, perfino lo sguardo, per capire dove il messaggio può essere diventato poco chiaro e aver scatenato l’ossessione dello stalker.
Paradossalmente quindi il primo istinto è quello di mettere in discussione se stessi, nonostante il comportamento sbagliato arrivi dall’altra persona, forse perché da sempre le donne vengono educate al senso di colpa, secondo il principio che se qualcuno ti mette le mani addosso o ti violenta lo fa perché è stato provocato. Se diventi vittima di qualcuno è perché te lo sei meritato. Basta guardare la recente campagna pubblicitaria per sondare i pregiudizi sulle donne: sono stati affissi cartelloni pubblicitari con donne che esprimono dei concetti solo per metà, e, registrando ciò che avveniva davanti a questi cartelloni, nel giro di pochi giorni le frasi sono state completate con pensieri sessisti e  a  sfondo sessuale. I pregiudizi sulle donne che devono rimanere ad accudire la casa ed essere oggetti sessuali nelle mani degli uomini sono ancora fortemente vivi. E sono proprio questi pregiudizi che animano le menti degli stalker, uomini che non vedono la donna come essere autonomo e senziente, ma solo come oggetto, se lo vogliono devono averlo e non può essere ammesso un rifiuto.
Purtroppo questi pregiudizi attecchiscono anche sui pensieri delle donne stesse, le quali dopo qualsiasi violenza sentono il peso della vergogna, dell’aver fatto qualcosa per provocare, la vergogna dell’essere biasimata dal contesto sociale, sempre pronto a proferire la famosa frase “ma se lo è meritato, va in giro sempre provocante”.
Ben presto però la rabbia per le molestie subite, il senso di prigionia e di solitudine che derivano dall’esperienza dello stalking, lascia spazio ad una visione più lucida rispetto alle proprie responsabilità. Emerge in maniera più chiara il senso di violazione, la violazione di un limite fisico, psichico, sociale, l’invasione indesiderata nella propria vita, sentimenti che inevitabilmente portano a modificare le proprie abitudini e i propri comportamenti. Non si cammina più serenamente per strada, la sensazione è di essere perennemente seguiti e l’istinto è di voltarsi a guardarsi le spalle ad ogni passo, a scrutare in ogni vetrina se c’è qualcuno che segue, neppure la casa e i luoghi a più familiari riescono a far sentire il senso di sicurezza. La vittima si sente come un topo in gabbia, recluso e braccato.
Quando poi subentrano le minacce la paura diventa paralizzante, fino a limitare profondamente gli spostamenti quotidiani, ci si sente braccati, come se non si possa fare niente per evitare il persecutore, come se fosse anche nei nostri pensieri e riuscisse a prevedere ogni movimento. In realtà lo stalker diventa un pensiero costante nella mente della vittima, ed è proprio questo il suo obiettivo, entrare nella vita e nella testa della vittima al fine di sancire un legame. Ogni trillo di telefono, ogni e-mail, ogni suono di citofono, ogni ombra nella via viene vista come la presenza del persecutore.
Il problema è culturale, una cultura che fa dell’uomo il centro della vita delle donne, le donne che devono accudire i mariti, i figli, i fratelli, un uomo a cui non viene insegnato a prendersi cura di se stesso da solo, una cultura che vuole la donna sottomessa all’uomo, non autonoma, non capace di autodeterminarsi. Più le donne diventano indipendenti socialmente ed economicamente, più vengono vissute come una minaccia alla virilità dell’uomo, allo stereotipo dell’uomo cacciatore che procura il sostentamento per la propria donna.