03/05/2014

DRAMMA DELLA SOLITUDINE.

Una storia molto triste campeggia oggi sui quotidiani, questa volta il protagonista è un anziano di 85 anni, il quale veniva probabilmente da un anno picchiato, segregato e pesantemente maltrattato dalla sua badante. Un dramma della solitudine, con i familiari disinteressati dei propri anziani, una donna senza scrupoli che infierisce impunemente su un uomo anziano, un uomo che sente il peso della solitudine e accetta le botte, supplicando i carabinieri di non portare via la sua aguzzina per non restare solo, l’indifferenza dei vicini che udivano distintamente le urla e i lamenti dell’anziano ma non hanno mai chiamato le forze dell’ordine. Due settimane prima dell’arresto un’inquilina aveva incontrato l’uomo e lo aveva visto con la faccia completamente livida, ma nulla è accaduto, finchè non lo hanno più sentito lamentarsi ed hanno avvisato il 118 temendo che fosse morto.
Questa storia è agghiacciante e offre diversi spunti per altrettanti temi di interesse psicologico. Quello che può destare più stupore, per la sua stranezza, è la supplica fatta dall’anziano agli agenti perché non gliela portassero via. Tale comportamento ha un nome ben preciso, sindrome di Stoccolma, uno stato psicologico causato da un evento traumatico o estremamente violento, come un rapimento o un abuso ripetuto, e per il quale la vittima prova un sentimento positivo per il suo aguzzino, tale da creare una sorta di alleanza o solidarietà con lui.
Il pensiero che origina questa sindrome si sviluppa in maniera automatica, non razionale, ed è legato ad una sorta di gratitudine verso l’aguzzino per il fatto che potrebbe uccidere la sua vittima ma non lo fa, e quand’anche questo agisse delle violenze fisiche, la spiegazione che si da la vittima è che sono necessarie per mantenere il controllo della situazione.
Nella difesa di se stesso che mette in atto la vittima, il fatto di creare un legame positivo con l’aguzzino ha l’obiettivo di non farsi vedere come un oggetto, ma come un “essere umano”, in modo da aumentare le possibilità di uscire vivo da quella situazione. E indubbiamente il fatto di condividere uno stesso luogo per un certo periodo di tempo facilita il processo di umanizzazione.
Di fatto dunque il meccanismo psicologico che sta alla base della sindrome di Stoccolma rimanda ad un istinto di sopravvivenza che si sviluppa in maniera automatica e che cerca il sistema migliore per cercare di conservare il bene più prezioso, la vita. D’altronde gli stessi aggressori hanno sostenuto che è più difficile fare del male ad un ostaggio che collabora. Senza contare che spesso, quando si subiscono prigionie lunghe, il bisogno di accadimento permane e viene soddisfatto dalle minime attenzioni che hanno gli aguzzini, anche se limitate alla semplice nutrizione per farlo rimanere in vita. Vedere soddisfatti i bisogni fondamentali depone a favore dei carnefici, alimentando una sorta di debito di riconoscenza.
La solitudine dell’anziano è poi un altro aspetto psicologico della vicenda, poiché questa non è data unicamente dalla lontananza fisica o morale che spesso c’è con i familiari, ma anche da un’autonomia limitata, da un funzionamento sociale ridotto, a causa del quale spesso non è possibile neppure coltivare le amicizie o frequentare luoghi di ritrovo per gli anziani. Inoltre le relazioni interpersonali possono essere ostacolate da difficoltà comunicative determinate dall’invecchiamento cerebrale, problemi di memoria, disturbi di concentrazione, affaticamento. Il vuoto esperito può innescare disturbi come ansia e depressione.
La solitudine diventa dunque una sensazione dovuta ad una condizione imposta da fattori ambientali, sociali, economici e culturali. E non è legata solo all’emarginazione, poiché ci si può sentire soli anche in famiglia o in un ospizio quando si percepisce di essere vissuti come un peso.
L’anziano si trova a vivere in un paradosso per cui il tanto tempo libero a disposizione, a lungo sognato negli anni di lavoro, diventa una trappola di inattività forzata, emarginazione sociale, solitudine.
L’anziano ha bisogno di un minimo di attivazione affettiva, il poter parlare con qualcuno della propria vita, qualcuno che magari possa compensare i vuoti mnemonici, in modo da mantenerne non solo il ricordo, ma anche la sensazione di essere utile agli altri con le sue storie di vita.
Altro aspetto è l’indifferenza, che ormai sembra essere il male del secolo, nessuno sente più il dovere civico di allertare le forze dell’ordine quando assiste ad aggressioni o ascolta lamenti. La sofferenza altrui non scalfisce più gli animi di nessuno. Tutto è consentito e va bene finchè non si intacca il proprio spazio vitale. Il senso di solidarietà e compartecipazione emotiva è sepolto sotto una fitta coltre di egocentrismo. Il mondo finisce davanti alla nostra porta di casa. L’altro non esiste, viene annullato, cancellato.
L’indifferenza rappresenta la scelta di non scegliere, di non prendere decisioni, fra due alternative, per esempio intervenire o chiamare qualcuno che intervenga, non si sceglie nessuna delle due. Pian piano ciò porta all’estremo di non essere più scalfiti dai disagi altrui, l’altro non esiste più, cancellato dal proprio campo d’azione.
L’indifferenza è l’assenza di emozioni, l’apatia. E’ il luogo dove si alimenta la malvagità, dove chi vuole ferire può farlo in assoluta libertà, poiché non incontrerà nessun ostacolo.