IL PIANTO DEL BAMBINO

Molti genitori spesso si sentono spiazzati ed impotenti davanti al pianto dei loro figli, soprattutto quando sono nell’età del pre-linguaggio, la paura che possano vivere un malessere di cui non si sa l’origine scatena un senso di frustrazione nel caregiver. Nel momento in cui l’adulto si lascia trasportare dalla propria paura di non riuscire a rispondere adeguatamente alle richieste del bambino, il carico ansiogeno della situazione aumenta e le reazioni dell’adulto possono non essere efficaci a calmare il pianto del piccolo.

In realtà in ogni fase della crescita il pianto è una forma di comunicazione, tanto per i bambini quanto per gli adulti, ancor di più nella fase della vita in cui un neonato può esprimere se stesso solo attraverso il pianto. Attraverso il pianto si comunica un dolore, un malessere, ma anche un disagio, un momento di insicurezza, di paura o spavento, una richiesta di attenzione, una richiesta di vicinanza, la maggior parte delle volte i neonati usano il pianto per richiamare l’attenzione della mamma e riaverla vicino a sé.

Purtroppo gli adulti tendono ad analizzare le situazioni dal punto di vista proprio, ossia di individuo adulto con le proprie memorie ed i propri vissuti rispetto al pianto: da adulti si piange perché si soffre per un dolore fisico o per una sofferenza emotiva, e questo dirige l’attenzione dell’adulto verso un pericolo di questo tipo quando il bimbo inizia a piangere, si proietta la propria esperienza personale sul piccolo e si deduce che se piange deve necessariamente avere un dolore. Già solo il pensiero che il bambino stia provando dolore fa aumentare l’ansia del genitore, poiché, assumendo che stia provando dolore e non sapendo cosa gli faccia male, sperimenta frustrazione ed impotenza; inoltre il pianto del figlio risuona nel genitore risvegliando ricordi ed emozioni legate a questa espressione emotiva che causano disagio nell’adulto stesso. Il risultato di questo intreccio emotivo è un aumento della carica ansiogena della situazione, l’adulto viene distratto dalla sua emozione e l’attenzione si sposta dal bambino, non permettendo di decifrare il messaggio che il piccolo vuole inviare e, dunque, di rispondere in maniera efficace alla sua richiesta.

Noi adulti dovremmo imparare a guardare al bambino con lo sguardo del fanciullo che è ancora dentro di noi, sicuramente le emozioni del bambino e quelle di chi se ne prende cura si intrecciano e si confondono, si alimentano a vicenda. Tenere bene in mente questo coinvolgimento inevitabile può aiutare nella gestione dei momenti critici o semplicemente nella comprensione dell’origine del pianto del bambino: ascoltare le nostre emozioni per sperimentare l’empatia con il bambino ma usarle come strumento di vicinanza emotiva senza confondere le cause dei nostri pianti con le possibili cause dei pianti del piccolo. Per fare questo però dobbiamo conoscere molto bene il nostro mondo emozionale e saperlo gestire, affinchè il senso di smarrimento verso le nostre stesse emozioni non si ripercuota sul bambino, già abbastanza confuso dalle proprie emozioni; in questo modo potremo aiutare i bambini ad entrare in relazione con le proprie emozioni ed imparare a conoscerle e gestirle anziché farsi sopraffare.

Quando i bimbi crescono ed imparano a parlare il pianto continua ad essere uno strumento comunicativo: se provano dolore fisico possono comunicarlo anche con il linguaggio, facilitando di molto la relazione con il genitore; ma può capitare che non provino un dolore fisico, possono essere spaventati o tristi o sentirsi disorientati rispetto ad una situazione o un cambiamento, ma anche in questo caso sono rare le volte in cui i bambini riescono a dare un nome a quello che provano. La differenza la fa il genitore in queste situazioni, la sua capacità di mostrare un ascolto attento al proprio bambino, un ascolto capace nello stesso tempo di far sentire il piccolo compreso e accolto, contenuto, e permettere al caregiver di decifrare lo stato emotivo del figlio ed aiutarlo a gestirlo. Ma delle volte può non essere facile per il genitore comprendere quale sia l’origine del malessere del bambino, soprattutto se improvvisa  situazionale, ed è in questi casi che può essere utile rivolgersi ad uno psicoterapeuta che, attraverso il parent coaching, lavora con i genitori per aiutarli a comprendere meglio le reazioni del figlio ed elaborare le strategie migliori per accompagnare il bambino fuori dalla situazione critica. Quando le reazioni dei figli coinvolgono ad un livello profondo anche i genitori è utile chiedere un sostegno ad un professionista che ha il vantaggio di avere strumenti e competenze per affrontare le problematiche evolutive ed anche la giusta distanza che permette un coinvolgimento empatico parziale con uno sguardo più obiettivo sull’intera vicenda familiare. Non abbiate mai paura di chiedere aiuto!!