10/03/2014

LE RAGIONI DI UN BULLO.

Su Repubblica di oggi si trova un interessante articolo-intervista ad un ex-bullo. Molte le parole chiave che descrivono questo fenomeno ormai troppo diffuso: odio, pietà, tortura, godimento, ansia, debolezza, rispetto, soldi, piacere.
Di un’agghiacciante freddezza e lucidità le parole del bullo che descrive quanto fosse mosso dall’odio verso tutti, da una totale assenza di pietà, dal godimento nel far male, torturare e sentir pregare la vittima, e più faceva male più godeva sadicamente della sofferenza altrui.
Ed è tanto più agghiacciante se si pensa che questi sentimenti sono ormai diffusi nei giovani, con lo sgomento e la rassegnazione di adulti, che spesso assistono ad atti di bullismo senza freni e non fanno nulla, al limite fra l’inerzia  e la paura di ritorsioni.
Dal punto di vista del bullo, la necessità di farsi spazio nella vita, conquistare un’identità passa attraverso la prevaricazione dell’altro, la diffusione della paura, la conquista di una posizione, anche economica, attraverso una fama da cattivo. Avere il rispetto altrui seminando paura. Questo è quello che pensa un bullo. Per la debolezza non c’è spazio: “hai mai pianto?” chiede il giornalista al ragazzo, e lui risponde: “Quando mio padre mi menava, e non dico che non avesse le sue ragioni, mi diceva di non piangere. Ho imparato a non farlo”. E continua: “Vorrei lasciarmi piangere. Quando trito le cipolle, sono un po’ felice perché mi vengono le lacrime”.
Questo è il punto più importante di tutta l’intervista, che ci rimanda il senso vero della sofferenza di un ragazzo che tortura gli altri per non sentire questo dolore interiore. Il dolore di un bambino picchiato da un padre che gli intima anche di non piangere, perché “è da deboli”.
L’aspetto cruciale su cui intervenire per cambiare questa situazione è proprio qui: le emozioni, i sentimenti non vanno repressi, le debolezze le abbiamo tutti, riconoscerle è segno di grande forza. Ma soprattutto i sentimenti non rappresentano una debolezza. Il dolore è un sentimento come gli altri e va espresso, altrimenti si trasforma in rabbia cieca, che rende gli altri vittime del proprio dolore, allungando così la catena della sofferenza.
Si è forti se si guarda in faccia il dolore e lo si affronta, non nascondendolo.
I nostri giovani, i bulli, sono vittime della sfiducia generale, di un contesto adulto che trasmette loro l’idea che il soldo facile è l’unico obiettivo della vita e che per ottenerlo si può anche calpestare gli altri, che i soldi portano rispetto, che non conta studiare tanto poi non si trova lavoro, più facile arrivare all’obiettivo per altre vie. Non hanno più freni e non hanno più modelli positivi.
Il prodotto di questo modo di pensare è l’omologazione, l’altro non esiste, o si aggrega o diventa il nemico da distruggere, la vittima sacrificale che raccoglierà tutti gli sfoghi ( della debolezza ) del gruppo, in una sorta di narcisismo dilagante che sotterra tutti, in un’assoluta assenza della percezione della gravità dei comportamenti, in un’assenza di empatia. L’altro diventa un oggetto nelle mani del più forte ( in realtà Debole ), e cosa importa se urla, prova dolore, implora, perché ascoltare quelle lamentele se nessuno ha ascoltato le proprie quando era nelle mani di un padre violento, vittima indifesa.
I nostri ragazzi hanno un tale caos emotivo dentro di loro, che non sanno gestire, perché nessuno glielo ha insegnato, nessuno gli ha spiegato che le emozioni non sono nemiche, ma alleate, che non le possiamo eliminare. Purtroppo però hanno sperimentato che possono stordirle, e lo fanno con alcol e droghe, con conseguente esasperazione del principio di piacere e di soddisfazione immediata degli istinti, che come una furia cieca distrugge tutto ciò che si frappone fra il desiderio e la sua realizzazione.
In pratica vogliono scollegarsi dalla loro dimensione emotiva, per non sentire. La noia, il dolore, il senso di vuoto che consegue ad una vita improntata sul principio del piacere, sono compagne dure con cui fare i conti, se non c’è nessuno che ti prende per mano e ti accompagna in quel mare in tempesta, ti dà coraggio e ti insegna a gestire la forza dirompente di questi sentimenti.
Cari ragazzi non è vero che prevaricare porta al rispetto, quello non è rispetto è paura, non è vero che per affermare se stessi bisogna distruggere gli altri, non è vero che non serve studiare. Guardate la sofferenza che avete dentro, urlate l’ingiustizia di un genitore che vi prevarica con la violenza dimenticando il suo ruolo educativo, non diventate come quel padre che vi picchia per chissà quale ragione. Affrontate il vostro dolore e ne uscirete più forti, di quella forza che genera la vera autostima, che investe le energie nella costruzione di un futuro, un futuro nel rispetto di sé  e degli altri. Accettate la vostra sofferenza, fa parte di voi, fatene la vostra forza, perché solo chi conosce il dolore sa riconoscerlo negli altri e sa come confortarlo. Gli altri non sono oggetti nelle proprie mani, sono delle risorse, perché insieme si può costruire una cultura in cui regna l’empatia, la comprensione e la condivisione.
Ricominciamo ad insegnare ai nostri figli, fin da bambini, che la vita è più facile se vissuta nella condivisione con gli altri, nel rispetto degli altri e di se stessi, nel rispetto delle regole e soprattutto nel rispetto dei sentimenti altrui. Quando un bambino di sei anni sbeffeggia un altro bambino perché paffutello, non diciamo che è un modo per scherzare, ma cogliamo l’occasione per insegnarli che le parole possono ferire, che i sentimenti degli altri vanno rispettati. Iniziamo dalle piccole cose per evitare che da quelle si arrivi a degenerazioni peggiori. Ripristiniamo la responsabilità delle proprie azioni, la regola  che da ogni comportamento deriva una conseguenza, e che se si sbaglia si risponde del proprio errore all’autorità, genitoriale o penale. Non cresciamo più ragazzi con il principio dell’impunità, della responsabilità etero-diretta, insegnamo ai giovani che ognuno risponde per le proprie azioni in prima persona.
Una gioventù che calpesta i diritti di tutti e che per uno sguardo non gradito non ci pensa due volte a massacrare di botte un’altra persona, è la manifestazione lampante che c’è una classe adulta che ha declinato ogni responsabilità educativa, ha usato i figli come valvola di sfogo delle proprie frustrazioni, ha compensato alle carenze affettive con un vuoto benessere economico, immolando sull’altare del dio denaro la vita dei propri figli.